A memoria d’uomo, oceani e montagne sono sempre esistiti, ma mentre i primi, sin dagli albori della civiltà, rappresentarono un forte richiamo verso l’ignoto e l’avventura, testimoniato anche da grandi opere dell’antichità come l’Odissea, le più alte vette coperte dai ghiacciai furono sempre considerate nemiche dell’uomo, spazi inospitali e spaventosi ma soprattutto inutili perché sterili, percorse tutt’al più da cercatori di gemme o cacciatori di camosci. Che narrazioni avrebbero potuto mai ispirare?
Si dovette aspettare l’8 luglio del 1786, considerata la data di nascita dell’Alpinismo, per la conquista dei 4807 metri della vetta del Monte Bianco da parte di Michel Gabriel Paccard e Jacques Balmat, entrambi di Chamonix. Il nuovo interesse per le montagne da cui i due pionieri erano mossi era fortemente legato al gusto illuministico per una visione onnicomprensiva del mondo, diffuso dagli enciclopedisti: si pensò che esse potessero offrire risposte sulla genesi del nostro pianeta e che dalle loro cime fosse possibile osservare l’intrico delle valli e delle catene montuose per comprenderne l’origine. Fu con questo spirito che lo svizzero Horace-Bénedict de Saussure il 3 agosto 1787, a un anno dalla prima scalata di Paccard e Balmat di cui era stato promotore ed anche uno degli scalatori, conquistò la vetta del Monte Bianco e la raccontò nella Rélation abrégée d’un voyage à la cime du Mont-Blanc. La scalata in alta quota era avvenuta lontano dagli occhi di tutti e non vi era altro modo per farla conoscere che affidarla alla scrittura, che di fatto svelava ciò che era invisibile ai più.
Negli anni successivi ci furono più di quaranta scalate su quella stessa vetta, sempre più sportive e meno a scopo scientifico, molte delle quali realizzate da alpinisti inglesi (quali Atkins, Auldjo, Barry ad esempio) e testimoniate da una ventina di racconti in cui l’ascensione veniva vissuta come una sorta di viaggio iniziatico, un’iniziazione a ciò che c’è di sublime e terribile nella conquista delle alte vette, e il racconto oltre ad essere considerato la naturale conseguenza dell’impresa alpinistica ne diventò strumento divulgativo.
Nel frattempo anche alcuni giovani dell’aristocrazia europea impegnati nel Grand Tour, il viaggio nel sud dell’Europa alla scoperta di cultura, arte e antichità, giunsero fino a Chamonix e le loro testimonianze sulle straordinarie caratteristiche delle “montagne di ghiaccio” incuriosirono diversi poeti e letterati: fu così che le montagne fecero il loro ingresso in letteratura. Tra i primi vi fu Goethe che raccontò la grande emozione provata all’improvvisa apparizione, sotto la luce lunare, della vetta del Monte Bianco, a cui si aggiunsero, fra gli altri, poeti romantici come Percy Bysshe Shelley e Lord George Gordon Byron (che oltre a dedicare dei versi al Monte Bianco ambientò il Manfred sulle Alpi Bernesi) ed anche lo scettico Chateaubriand che proprio non capiva cosa trovassero i suoi contemporanei in quelle montagne così alte da togliere luce e respiro e riteneva assurda e inutile la nascente attività alpinistica.
A quanto pare, a dispetto dell’opinione di Chateaubriand, la narrazione delle grandi scalate alpinistiche rappresentò l’elemento propulsore dell’alpinismo stesso e ancora oggi, in un’epoca super tecnologica, il racconto della propria esperienza sembra essere parte integrante dell’impresa. E non solo ne è testimonianza ma cerca anche di spiegare le motivazioni profonde di un’attività ad altissimo rischio, in cui ci si muove in condizioni estreme fra freddo, fatiche, intemperie, e la morte è compagna di strada. Una scelta incomprensibile ai più.
E così gli alpinisti di oggi hanno lasciato le Alpi per conquistare vette molto più alte, dal K2 all’Everest, dal Nanga Parbat all’Annapurna, dalla parete ovest del Changabang al Shisha Pangma, ma continuano il racconto iniziato dai loro predecessori alimentando la fascinazione per le più alte vette del mondo.
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Buona lettura!