Our band could be your life. La storia dell’underground americano degli anni 80 – prima parte

Il 24 settembre del 1991 venne pubblicato un disco intitolato Nevermind, di una band chiamata Nirvana. Nel giro di poche settimane diventò disco d’oro, scalzando Michael Jackson dalla prima posizione nella classifica degli album di Billboard e spingendo la giornalista musicale Gina Arnold a proclamare “abbiamo vinto”. Ma chi era il “noi” del soggetto? E perché eravamo così diversi da “loro”?

“Noi” era una rete in espansione di fanzine, stazioni radiofoniche underground e dei college, trasmissioni locali via cavo, piccoli negozi, distributori ed etichette discografiche, newsletter, club e locali alternativi, agenzie di booking, band e appassionati. Un sistema di cooperazione sviluppatosi per più di un decennio prima che il mainstream prendesse nota.

ourband

Con queste parole si apre l’introduzione di Our Band Could Be Your Life, libro del 2001 del critico musicale Michael Azerrad arrivato in Italia solo nove anni dopo nella traduzione di Carlo Bordone con il titolo – assai meno evocativo – di American Indie: 1981-1991, dieci anni di rock underground, (ed. Arcana).

Un testo imperdibile per qualunque appassionato, che, intrecciando le storie di tredici formidabili band dell’epoca, racconta uno dei periodi più creativi ed eccitanti della storiografia rock, quando indie non era semplicemente uno stile musicale – come siamo usi immaginare oggi – ma una vera e propria scelta di vita e di indipendenza, appunto. Una rivoluzione capace di mettere insieme mondi lontanissimi – geograficamente e sonicamente – in un tempo in cui le distanze non erano ancora state annullate dall’avvento di Internet.

Su MediaLibraryOnLine, grazie al servizio Freegal, è possibile trovare buona parte di quella musica, che ha gettato le basi per molto del rock alternativo e che nel decennio successivo avrebbe trovato il suo momento di massimo splendore commerciale, proprio a partire dai Nirvana di Kurt Cobain. Su BiblioMediaBlog  vi racconteremo di due di quelle band che hanno fatto epoca e che, a distanza di decenni, conservano intatta la vitalità che è solo di chi sa tracciare nuove strade. Iniziamo oggi con i Minutemen, mentre giovedì 8 ottobre, nella seconda parte di questo post, vi parleremo degli Husker Du.

La nostra band potrebbe essere la vostra vita.

I Minutemen da San Pedro

Un’amicizia da cui parte tutto: dritti da San Pedro – cittadina proletaria della California, a trenta miglia e qualche anno luce da Hollywood – Mike Watt e D. Boon si incontrano all’inizio degli anni ‘70 e subito si trovano a meraviglia, entrambi “nerd fatti e finiti” appassionati di giochi da tavolo, storia e politica. Basta poco perché la madre del paffuto Boon, preoccupata dal quartiere difficile in cui vivono, li convinca a mettere in piedi una band rock, sebbene Watt non abbia idea di come suonare – e tantomeno accordare – un basso.

Come tutti a San Pedro, iniziano suonando i classici hard rock e non immaginano nemmeno di poter provare a scrivere canzoni proprie, in un’epoca – i primi settanta – tra le più terribili che il rock ricordi. Fino all’arrivo del punk, che travolge loro e tutti gli altri dropout del posto.

Boon e Watt cominciarono a frequentare i club punk nell’inverno a cavallo tra il 1977 e il 1978, all’età di diciannove anni. Sulle prime Boon pensò che le band fossero “scarse”, dato che suonavano stonate e rompevano le corde. “Sì, erano scarse”, concede Watt. “Ma non fu quello a colpirmi; quello che vedevo era gente che stava tenenedo dei veri concerti. E qualcuno di loro pubblicava dei dischi! Tutte cose che a San Pedro nessuno faceva.

Trovano il coraggio di proporre a George Hurley – un tipo popolare, ex surfista e pugile – di unirsi a loro come batterista e in breve formano una prima band (i Reactionaries) e, dopo qualche mese, i Minutemen: il nome è preso da un gruppo reazionario degli anni Sessanta, la musica è ispirata alla lezione del post-punk artsy di gente come Wire e Pop Group, con brani brevissimi e privi di limiti stilistici.

Non avevi bisogno di ritornelli, non avevi bisogno di assolo di chitarra, non avevi bisogno di niente.

Minutemen PTfrontE così suona l’EP Paranoid Time, il loro esordio: 300 copie stampate, sette canzoni e nemmeno sette minuti, con dentro lo spirito del punk, la velocità dell’hardcore, ma anche il funk e il jazz, Captain Beefheart e il buon vecchio rock’n’roll. Tutto stilizzato, poetico e appassionato, con una coscienza politica e sociale proletaria in primo piano. Ancora più riusciti sono il primo album vero e proprio, The Punch Line e, soprattutto, il bellissimo What Makes a Man Start Fires?: Le limpide chitarre di Boon (niente distorsioni per lui), il basso pizzicato di Watt e la batteria virtuosa di Hurley costruiscono dei perfetti meccanismi a incastro, in cui c’è tantissimo in uno spazio minuscolo – solo in due casi si superano i 2 minuti di durata.

Ci auguravamo di scuotere i ragazzi, perché il punk-rock non doveva ridursi a essere hardcore o solo uno stile di musica o cantare sempre gli stessi slogan. Può invece voler dire libertà, diventare pazzi ed essere originali con la propria arte.

Nel 1983, il trio dà alle stampe un altro ottimo EP, Buzz or Howl Under the Influence of Heat (registrato con 50 dollari e con diversi pezzi importanti, come Cut); l’anno successivo, invece, tocca a uno dei monumenti dell’indie americano, il doppio Double Nickels On The Dime – incidentalmente, anche uno dei più grandi album di sempre.

double_nickels_on_the_dimeNato come una sfida interna alla scena alternativa – gli Husker Du pubblicano nello stesso anno e per la stessa etichetta il doppio Zen ArcadeDouble Nickels On The Dime conta oltre quaranta pezzi dai ritornelli contagiosi (Viet Nam, Political Song For Michael Jackson To Sing, Corona, This Ain’t No Picnic), che volgono lo sguardo in ogni direzione e di tanto in tanto che si prendono piccole pause (l’acustica di Cohesion); tra le tante tracce, poi, si nasconde History Lesson, Pt. 2, forse la più bella dichiarazione di fede mai ascoltata in una canzone: da qui è tratto il verso che dà il titolo al libro di Azerrad, Our band could be your life – la nostra band potrebbe essere la vostra vita. In quei due minuti e poco di dolce melodia ci sono tutta la storia di un’amicizia e il senso di una musica con la voglia e la forza di cambiare la vita dei pochi in ascolto.

Un manifesto, insomma, per cui parla già l’ironico concept dietro all’immagine di copertina, con gli occhi sorridenti di Mike Watt che guardano dallo specchietto retrovisore della sua Volkswagen, mentre il tachimetro segna esattamente 55 miglia orarie. Quell’anno il rocker Sammy Hagar entra in classifica con la hit Can’t Drive 55, una canzonetta in cui dà fondo al proprio animo “ribelle” dicendo di non riuscire a guidare entro i limiti di velocità imposti dalla legge; i Minutemen gli rispondono indirettamente dal loro piccolo mondo, guidando a 55 miglia orarie esatte: perché la vera ribellione di Watt, Boon e Hurley non sta nel guidare un’automobile ad alta velocità, ma negli spigoli di una musica eccitante e imprevedibile.

Difficile ripetersi dopo un’opera del genere, e infatti il trio si getta in tutt’altre direzioni: i due dischi successivi, Project: Mersh e 3-Way Tie (For Last), dicono di una band intenta a guardare altrove e a scrivere canzoni decisamente più elaborate, anche in termini di produzione (in tre brani del primo si sente addirittura una tromba). Ma le sperimentazioni contenute in questi album non avranno mai modo di svilupparsi compiutamente: la notte del 22 dicembre 1985, il furgone guidato dalla fidanzata di Boon esce di strada e il ragazzo – febbricitante, addormentato sul sedile posteriore – muore sul colpo.

Tutto ciò che Watt poteva pensare era “cosa?”. Tornò col pensiero all’immagine dell’amico d’infanzia, forte come un toro, che giocava a football nel Peck Park. D.Boon non era veloce, ma ci volevano due o tre ragazzi per fermarlo. “Sembrava immortale”, dice Watt, scuotendo la testa incredulo. “E invece…”.

“Quello fu il peggio, il peggio”, continua. “Niente più D. Boon. Niente più Minutemen. Ormai dipendevo da lui. Ero obnubilato. Ero stravolto. È stata dura per me. Cristo, se è stata dura. Mi manca.”

D. Boon venne seppellito nel Green Hills Memorial Park di San Pedro, proprio dall’altra parte della strada in cui lui e Watt erano cresciuti.

Dopo tanto dolore, Watt riuscirà a mettere insieme un bellissimo disco con registrazioni dal vivo (Ballot Result) e poi abbandonerà per poco gli strumenti. Qualche  tempo dopo alla sua porta si presenterà il fan Ed Crawford, che convincerà lui e Hurley a mettere su una nuova band: si chiameranno fIREHOSE,  pubblicheranno altri dischi importanti per l’underground americano e a un certo punto avranno pure l’opportunità di firmare per una major – trovate anche la loro musica in download su MLOL.

E poi verrà altra musica, sempre interessante, sempre avventurosa e appassionante. Soprattutto, in ogni istante, rimarrà viva la lezione dei Minutemen.

Non siamo qua per diventare la più grande band del mondo; siamo qua per fare dei piccoli concerti, pubblicare piccoli giornali, mettere su una piccola etichetta. Abbiamo tenuto le cose a una dimensione per cui queste cose potevano essere realizzate. E in più ci siamo tenuti i nostri lavori, ci siamo pagati l’affitto, abbiamo tirato avanti.

Spero solo che qualcuno legga di noi e veda che non eravamo prefabbricati. Spero che capisca che eravamo solo tre ragazzi da San Pedro, e che forse potrebbe fare anche lui le stesse cose, con le sue forze.

Continueremo a raccontarvi dell’underground americano degli anni ’80, e in particolare degli Husker Du, in un post che uscirà prossimamente; nel frattempo, potrete ascoltare e scaricare gli mp3 dei Minutemen dal vostro portale MLOL. Stay tuned!

Articolo ripreso e modificato dal blog Avverbi, alcuni diritti riservati