Le piccole persone. L’amore per gli animali in Anna Maria Ortese

Anna Maria OrteseIn tempi di grande diffusione di scelte, ideologie, filosofie e mode animaliste, è utile leggere la profonda riflessione su questo tema che una grande autrice della letteratura italiana, Anna Maria Ortese, continuò ad elaborare in molti suoi scritti, recentemente pubblicati da Adelphi nella raccolta Le piccole persone.

La riflessione di Anna Maria Ortese rievoca una condizione atavica di comunione, pace e armonia fra uomini e Natura, che in qualche modo il nostro tempo ha lacerato, e di cui gli animali, con l’innocenza del loro sguardo, con la purezza del loro canto, portano ancora una vaga, struggente testimonianza.

“[Ci sono] momenti che un’umile bestia (o ciò che crediamo tale) ci guarda in modo tanto quieto, benevolo, profondo, tanto puro, consapevole, amoroso, «divino», da farci balenare l’idea di una comune Casa, di un comune Padre, un comune Paese, un Reale tanto felice e beato, dal quale partimmo insieme, per naufragare in questo. […] Nelle voci di molti uccelli, forse anche dei più lieti, risuona a volte questa nota accorata, quest’alta e trepida malinconia, a cui non sembra esservi spiegazione. […] questa Natura, con i suoi rituali eterni e la sua segreta tristezza, ci parla invariabilmente di un passato, di una partenza, di un Altrove raggiante, di pace, e del giorno in cui ne fummo allontanati”.

le-piccole-personeNasce proprio dalla nostalgia di questa comunione, che è prima di tutto filosofica, la dolorosa empatia dell’autrice con la sofferenza della reale condizione animale : animali da lei amati in quanto creature, in quanto “piccole persone”, esseri vivi e senzienti sui quali l’uomo esercita la sua crudeltà. L’uomo, la civiltà “senza freni (per quanto riguarda i suoi propri desideri e diritti)” sono responsabili di uno strazio che è, per Ortese, un oltraggio alla Vita stessa.

“Queste anime viventi – tale è il loro nome nei testi sacri – occupano il grado più basso, ormai, di tutta la vita vivente, e dove in tempi precedenti la loro sfortuna, asservimento, dolore era cosa casuale ora è cosa altamente programmata, tramite l’industria, e li vediamo in ogni punto della loro muta vita soggetti alla infame programmazione del vivere – una minima parte – umano, alla programmazione del potente umano. Allevamenti, macelli, laboratori, giochi infami, sacrifici solo apparentemente religiosi – in realtà sadici -, maltrattamenti, divertimenti e alla fine ritiro totale, da essi, di ogni pur apparente protezione della legge: ridotti a cose, essi anime viventi, e il loro vivere pari in tutto all’inferno che l’uomo temeva e ora ha pienamente realizzato. Lo ha realizzato per i più deboli.”

Il grido di Anna Maria Ortese è disperato, tanto più disperato quanto inascoltato. Sia per l’indifferenza della società, alla quale lei si rivolgeva attraverso lettere al giornale, commenti a fatti di cronaca, appelli, sia per la sua stessa condizione di intellettuale solitaria, isolata dal mondo letterario del suo tempo, e lontana da movimenti, tendenze, mode.

Consapevole dell’indifferenza in cui i suoi appelli cadono, i toni dei suoi scritti sono davvero sofferenti, a volte sovraccarichi di quella rabbia soffocata che nasce proprio dal senso di impotenza, che ogni tanto si eleva a vere e proprie invettive contro l’uomo:

“Vorrei dire anche: basta basta basta con i problemi dell’uomo. L’uomo si alzi in piedi, veda quanto ha rubato, infierito sulla natura, depredato e straziato – e come questa vita di vandalo lo abbia stremato. Si alzi a ricostruire la terra che non era sua, era dono di tutti, e solo allora – se avrà fatto qualcosa di buono per questa terra e per i suoi abitanti tutti – osi parlare dei suoi strazi. Ma prima no. Tutta la terra è una ferita sola, tutto il popolo delle bibliche anime viventi geme sotto la mano malvagia di un solo animale. Che questo animale si redima, o se ne vada per sempre. Egli, finora, non è stato che maledizione e malattia della vita. Non è più – se non diviene umile – necessario”.

Solo a un interlocutore autentico e solitario come lei, altra figura anomala del panorama letterario del XX secolo, Guido Ceronetti, riserva un tono più disteso, sempre però profondamente malinconico:

“Ho riletto un racconto di Poe, L’Isola della fata, dove si parla di una sensazione che ad alcuni è nota: che la terra sia un vero essere sensibile – un corpo meraviglioso, vivente. Lo rilegga, caro Ceronetti. Allora si vedrà da dove viene questa povertà infinita – e dolore – dentro cui respiriamo, Secolo Ventesimo. Una volta provai questa emozione passando in treno, d’estate, treno e paesaggio deserti – davanti all’Appennino. Mi parve un immenso essere umano, addormentato, dimenticato. Così è tutta la nostra cara terra, se appena la guardiamo da soli, senza remore, senza «nostre» idee o avidità”

Una Natura così umana e così sacra, dunque, oggi dea fragile e oltraggiata, in balìa della “civile” umanità.

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